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"Non avrei mai pensato..." Ritin, classe 1912
Laura Martinotti


Il tavolo rotondo con la tovaglia beige all'uncinetto, gli armadietti bianchi del cucinino, e il calore scoppiettante di una bella stufa a legna, in sottofondo il televisore acceso su Rete 4: è la nuora di Maria Rita (Ritin) a fare gli onori di casa, un'arzilla signora con i capelli d'argento e gli occhiali con la catenella.

Mentre si esauriscono i convenevoli, dal fondo di un corridoio in ombra, piano piano, emerge una figura curva. 

La nuora, che nel frattempo si è presentata come Remigia, si alza lesta, va incontro a Ritin e le porge la sedia. Ma Ritin rimane in piedi, si appoggia saldamente sui due bastoni, si rizza sulla schiena incurvata dai suoi novantaquattro anni e guarda Evelina dritta negli occhi.

Per lei è una fatica, Evelina non è proprio piccolina, ma sta lì e la guarda, poi guarda Remigia, e con la vocina stentorea sbotta: “Io ne ho quattro di gambe, chissà ora come ballerei bene con quattro gambe!” e giù a ridere.

Dagli anziani ci si aspetta rassegnazione e tristezza.

Non è facile chiacchierare con Ritin. In un primo tempo Evelina pensa che sia un po' sorda, ogni volta che dice qualcosa la guarda inebetita, poi guarda la nuora che le ripete ciò che Evelina ha appena detto. Dopo dieci minuti ci arriva: non è sorda, non capisce l'italiano, o meglio, capisce di più il piemontese. Così all'improvviso Evelina diventa la forestiera che ha bisogno della traduzione simultanea e si rivolge al Remigia quando deve dire qualcosa alla Ritin e Remigia traduce fedelmente.

Ritin fa di si con la testa, segno che ha capito perfettamente, ma poi è di nuovo la nuora a parlare, insomma fa le domande e si risponde, uno spasso.

Remigia è la depositaria della storia di sua suocera. Storie raccontante innumerevoli volte che lei conosce alla perfezione per le tante volte che le ha sentite. Due generazioni che si incontrano, si intrecciano e si confondono. La mia storia, la tua storia, la nostra storia.

Mentre Ritin continua a fare di si con la testa, Remigia racconta della loro vita. Racconta del fratello di Ritin che non è mai più tornato dalla guerra, disperso in Russia e poi ritrovato. Così si esprime:  “ritrovato”. Hanno ritrovato le ossa, qualche tempo fa e le hanno riportate a casa in una scatola di legno. L'unico uomo di La Cassa partito per la guerra e mai più ritornato. Una tragedia per Ritin, una tragedia straziante per il padre che andò in bicicletta a San Gillio chiamato per comunicargli la notizia. Tornò a casa che sembrava un altro uomo, interviene Ritin, distrutto dal dolore. In questo paese allegro e canterino sembra che la guerra, quella guerreggiata, con il sangue e le distruzioni, si sia vista poco. Ma anche qui c'erano i fascisti “ma erano tutti brava gente. La pensavano così, ma non facevano male a nessuno”. Remigia se le ricorda ancora adesso le famiglie dei fascisti, fa i loro nomi, quasi con affetto, e ripete che erano brave persone, che si sono sempre comportate bene con tutti. C'è stato un solo episodio molto spiacevole al cimitero, dice, dove hanno distrutto la tomba di un fascista. Evidentemente quello non era una brava persona.

Ritin parla all'improvviso come illuminata, perché le viene in mente di quel giovane tedesco in uniforme che capitò per caso qui a La Cassa. La gente si spaventò, sapevano che i tedeschi facevano i rastrellamenti, e vennero giù i partigiani. A questo punto il racconto si fa confuso, non si capisce se il tedesco sparò per primo o lo fecero i partigiani. Lo sotterrarono in una vigna. Non essendo una grande metropoli, tutto il paese ne era al corrente ma l'omertà fu totale. Dai bambini agli anziani, quando vennero i tedeschi nessuno parlò e nottetempo spostarono la salma in una altro luogo, più lontano. La famiglia di quel giovane tedesco non ebbe indietro neppure le ossa.

Storie che si intrecciano, che iniziano e finiscono per ricominciare. Un moto perpetuo che non conosce fine, perché la memoria non ha fine, da un ricordo si arriva ad un altro e poi ad un altro ancora.

Ritin, che ormai ha preso confidenza con Evelina, ricorda i suoi tre figli, che ora non ci sono più. Proprio durante la guerra partorisce il suo secondogenito. Ma è terribile. Lei si ammala di tifo durante la gravidanza e partorisce quando la malattia è al culmine. Ha la febbre alta, i dolori del parto, ha caldo e poi freddo, perde i sensi e la capacità di parlare, di chiedere. Poi ritorna in se e si dispera per quel bimbo che deve nascere e di lei che si sente morire. Mentre Ritin racconta, con il viso e le mani rivive quei momenti: la testa che scoppia, il dolore alla pancia insopportabile, i sudori freddi, la perdita dei sensi e i momenti di lucidità, il cuore dilaniato dalla paura di perdere quel bambino e di morire. Ma alla fine ce la fanno, tutti e due, mamma e bambino.

E qui Remigia, che non riesce proprio a staccare la sua storia da quella di sua suocera, racconta i parti in casa, con le donne che si affaccendavano intorno alla partoriente, con Madama Carena, l'ostetrica, che arrivava in bicicletta e stava lì anche a dormire, fino a che il suo lavoro non era finito.

Ritin partorì sempre in casa, naturalmente. Una volta il marito, di ritorno dal turno dalle due alle dieci, vide che la luce della camera da letto era accesa, e capì che era ora. Entrò in cucina e si fece scaldare del caffé avanzato. Diventato padre andò dalla moglie sfinita con gli occhi lucidi di gioia e di orgoglio (era un maschio) mentre le donne concludevano le ultime cose. Ritin racconta che suo marito si avvicinò al letto, la guardò e le toccò la mano. Ma come, neanche un bacio? Ancora adesso Ritin arrossisce per una vergogna che ha settanta anni e portandosi le mani alla testa dice: “Ma no, c'era mia suocera, io le davo del voi, non si poteva mica!”

Ritin e Remigia, la suocera e sua nuora. Nel poco tempo che Evelina le ha sentite raccontare, da quella cucina semplice e pulita sono passate due vite e quasi cento anni di storia. Non vorrebbe andarsene, ma è ora. Evelina si alza, le va  vicino per darle un bacio e lei le prende per un braccio, con quella forza nelle mani ossute che solo gli anziani hanno, per farti capire che loro ci sono ancora e che hanno ancora tanto da dirti. La attira vicino a sè e le sussurra: “..non avrei mai più pensato di vivere così tanto, non l'avrei proprio mai detto....”

Il pensiero è ancora a Ritin e Remigia e avanzando lentamente per la strada che porta al paese, Evelina si ritrova davanti alla chiesa. La salita è stata impegnativa e la panchina sotto l'ippocastano sembra chiamarla.

Dalla chiesa, con il passo lesto lesto, esce una donnina con un grembiule allacciato a vita. Capelli bianchi, vispa come una ragazzina, si dirige verso la casa del Don. Dopo un attimo si spalanca la finestra dell'ultimo piano e due braccini robusti ammonticchiano lenzuola, coperte e cuscini sul davanzale. Evelina alza lo sguardo e di nuovo sorride, averla tutta quell'energia!

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