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Ti porterò lontano

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"Perturbazioni", da flickr.

Era forse stato il candore abbacinante delle nevi, qualcosa di chiaro e forte, che mi aveva fatto scegliere un bianco.


Giorno freddo, in montagna; una mattinata di buon lavoro, tanto sole, la faccia un po' cotta dall'aria e rossa.


Così arrivato in un luogo caldo ho chiesto un pasto e un vino.


Bianco.


 


E' stata la cortesia della ragazza al bancone a far sì che, pur essendo in quello che era poco più di una rifugio, scegliesse il vino con cura ed il calice dalle forme più armoniose per servirmelo; e che, invece di posarlo malamente davanti all'avventore di turno com'era solita fare, prendesse da un ripiano un vassoio dove posare, con cura meticolosa e nel centro perfetto, il calice che aveva lentamente riempito.


Portando il vassoio in modo forse eccessivamente affettato, alzando appena lo sguardo un po' stufo su di me, sembrava per un attimo estraniata dal lavoro; sicura di sè, un po' cinica, un po' incuriosita da quell'attenzione che ci stava mettendo in un gesto forse insolito per quel posto, camminando piano e muovendosi con qualche armonia di troppo per quel luogo.


Un guizzo d'ironia sorniona passava negli occhi marroni veloce verso me mentre il calice mi veniva posato accanto e la ragazza finiva nel serbatoio dei ricordi belli e dimenticati.


 


Invece il calice era lì, ad interrogarmi; limpido sul tavolo di legno, il vetro appannato di fresco, catturava la luce bianchissima diffusa dai finestroni.


Meglio far girare i succhi gastrici, prima di incontrarlo; un grissino, un pezzo di pane, un assaggio dal piatto.


Lui sempre lì, fermo; giusto qualche increspatura in superficie a sottolineare i miei movimenti, ad accompagnarmi.


Guarda che ti vedo, mi diceva; guarda che sono attento a te.


E io a te, gli rispondevo; avrò cura di te, vedrai, ti porterò lontano.


 


Un angolo della mia mente rimpiangeva, in quel giorno freddo, di non aver scelto un rosso carico.


Un altro angolo danzava in volute leggere di giri ascendenti a rimirare quel colore promettente di frescure primaverili; limpido, d'un giallo che aveva perso ogni tono di verde, preservandone il ricordo; figlio orfano di un colore nocciola e ben lontano dall'essere saturo e carico delle terre dell'ovest o trasparente dei suoli sabbiosi dell'est, sembrava piuttosto un frutto delle prime pendici sul mare dell'Italia centrale o meridionale, difficile dire se del versante adriatico o di quello tirrenico. La limpidezza prediligeva il primo, la maestosità dei riflessi di colore il secondo; insieme, una sensazione di lieve profondità, di promesse nascoste dietro veli appena da scostare, rinunciando a criticare la forza dell'intensità di alcune sfumature di colore per fidarsi della limpidezza profonda visibile in ogni piccola increspatura sul calice.


 


Il rumore del locale, il movimento, le persone, la vita intorno, un po' alla volta perdevano importanza, sbiadivano, andavano fuori fuoco; io e lui, al mondo: null'altro.


Ora, con un gesto lento ed eccessivamente sinuoso il mio braccio si muove strisciando il polso sul tavolo fino al gambo del calice; le dita lo catturano e, a ritroso, la mano si muove piano per portare il bicchiere in fronte al viso, per avanti e in alto; non ancora sotto il naso, non sono ancora pronto a lasciarmi ferire, basterebbe una nota sgradevole per far cadere il mondo, per la catastrofe universale.


Così lo sposto oscillando davanti agli occhi, inclino il bicchiere, godo il liquido movimento che riempie gli spazi, noto le lacrimature sulle pareti del calice, ne saggio il corpo, ammiro voluttuosi goccioloni discendenti dal bordo per tornare in quiete dopo una ripida corsa appena sinuosa, breve ed intensa.


Un liquido che scende così deve avere una storia. Non può essere altrimenti, basta vedere la forma della goccia, i riflessi di ogni singola colatura, la gioiosa allegria del movimento; una storia che oggi giunge a me e che voglio leggere, coccolare, far mia, trattenere tra le mani.


Può essere il prodotto di punta di una raffinata famiglia di viticoltori o una più modesta diffusione di mercato di una coltura meno nobile; poco mi importa, in quel movimento liquido c'è la terra, l'aria, l'acqua, il sole. Tutto.


A rendere magico l'attimo ci siamo io e lui, il rapporto unico e irripetibile tra l'uomo affamato di senso e la materia che gli si offre in risposta, nozze chimiche di alchemica memoria.


La mano tiene il calice un po' in alto, sopra il livello degli occhi, quasi come in un offertorio, ricordando quel "frutto della terra e del lavoro dell'uomo" che rimbomba in testa e illumina di pensieri il movimento, lento, che abbassa il calice per presentarlo alle nari.


Un respiro più forte, un movimento veloce inspiro/espiro per pulire i dotti nasali e prepararsi ad una conoscenza più vicina, quasi biblica, tra l'uomo e la materia.


 


Intorno, un po' di gente se n'è andata, c'è meno rumore.


La ragazza del bancone ogni tanto lancia sguardi verso me, un po' incuriosita da questi movimenti insoliti e lenti, per questo ambiente forse troppo affettati, studiati.


Guardo il taglio degli occhi decisi, ora curiosi.


Un giorno ti avrò, penso.


Forse in un'altra vita.


 


L'olfatto è il senso più primordiale che abbiamo; ed è quello che ha più memoria.


Così la prima sensazione olfattiva che ho è quella di timore, quasi di inaspettata paura; tu calice, sei così potente che abbracciarti potrebbe farmi del male.


Come se fosse un profumo da sempre aspettato, come se fosse l'abito di quel vino, e quell'abito fosse quello di una persona dimenticata che improvvisamente si vede da lontano, e quella persona potesse bucare l'anima, potesse farci dimenticare tutte le ruvidità della vita per tornare bimbi a gioire del calore di una carezza: così quel profumo si abbraccia a me, con così tanta potenza da far temere per l'integrità dell'animo.


Carezze di primavere promesse, di tepori leggeri di fiori, di brezza che sfiora la pelle, di mare e mirto e rosmarino e roccia e vento; miraggi in questo clima freddo e luminoso, miraggi da impazzire di voluttà qui e adesso.


 


La ragazza ora guarda quasi fisso; se mi giro lei distoglie lo sguardo o si sposta.


Si gira e le guardo i fianchi di pane, la curva dalle spalle al collo nella maglia larga, la spallina ammiccante.


Indossa su una gonna morbida verde una maglia scura, con fiori stampati rossi bianchi viola e un po' verdoni; chissà che profumo avranno, quei fiori, chissà che profumo avrà quella pelle, chissà come sarebbe strisciare l'incavo tra il naso e il labbro su quella spallina;


 


Un giorno ti avrò, penso.


Forse in un'altra vita.


 


In attesa di un'altra vita quei fiori, quella pelle, hanno il profumo che salendo dal calice inonda le narici.


Distolgo lo sguardo mentre lei si gira; il calice, geloso, ruota di movimenti circolari lenti e sornioni, smuovendo piano molecole che si librano nell'aria; un piccolo vortice attira lo sguardo, calamita l'attenzione, la cattura.


In quel vortice vorrei perdermi; in quel vortice vorrei dire "e se la morte è soltanto un mare, vedi, mi ci butto vestito" come nella canzone, lì, negli occhi di quel vino, vorrei disperdermi, oltre la neve, il freddo, il giorno, l'anno e la vita.


Ma siamo bagnati di tempo, ed è ora di bagnarsi le labbra: è nel tempo che ci è dato vivere.


Sarà tutto questo filosofeggiare, sarà la sete, sarà la mattinata stancante; l'incontro tra liquido e labbra secche è un balsamo e la prima sensazione è quella del ristoro fisico del liquido sulla superfice riarsa: la imbibisce, la feconda come terra assetata restituendo tono e leggerezza; ed è gioia.


Ha buon gioco, a questo punto, la cascata di gusti che si riversa danzando allegra sulla piacevolezza già presente; ma così non vale, come si può resistere ad un doppio piacere? Vino femmina, si dà a profusione, su un tappeto lieve di ristoro sparge sulle labbra e sulla punta della lingua liquide sensazioni d'agrumi miscelando una base diffusa sapida e corposa dei terreni calcarei con l'acidulo frizzante dei terreni sabbiosi che diventa sorpresa quando le note alcoliche rivelano il corpo e la stagione del sole che passando dal vino arriva prima al cuore, poi alla testa; testa che si perde, e chiudendo piano gli occhi rinuncia alla ragione e si lascia andare ad assaporare ogni rivolo dell'endorfine che si diffondono nel corpo, danzando e vibrando nel profondo, nella pelle, in ogni unghia, in ogni singolo piccolo pelo, dal centro ai bordi dell'essere.


 


Riaprendo, piano, gli occhi, li giro verso sinistra: guardo il bancone.


La ragazza non c'è.


In fondo mi dispiace, mi sembra una con cui si potrebbe gustare un vino come questo e inebriarsi di parole.


Mi illudo che abbia sentito, percepito, capito qualcosa; in realtà mi avrà visto come uno dei soliti beoni del locale o, al meglio, un originale un po' tocco.


Peccato, una così mi piacerebbe; sento un'assenza dolorosa nell'incavo tra il naso e il labbro.


Un giorno l'avrò, penso.


Forse in un'altra vita.


 


La dimentico, chiudo gli occhi, riassumo le sensazioni, le risento, mi preparo ad un altro sorso; ora il palato è pronto, il corpo intero è pronto a ricevere tutto, da questo vino.


Voglio catturare il momento, la scena, per fissarla nel cuore; riapro piano gli occhi, questa volta senza cercare il bancone.


La prima cosa che vedo sono i colori alla mia destra: rosso bianco viola e un po' verdone.


E due occhi.


E un sorriso.


 


Un giorno l'avrò, penso.


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