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umidi viaggi onirici nel Ceronda
italo losero
Fin da bambino la natura mi ha fatto da cassa di compensazione dell'anima.
Per qualsiasi preoccupazione, problema, cruccio ho sempre trovato nell'immergermi nel flusso delle cose naturali un riposo del cuore; soprattutto l'inverno e l'autunno mi sono stati d'aiuto e, con gli anni, sto cercando di conquistare anche le stagioni per me più difficili, la primavera e l'estate.
E' una specie di esercizio spirituale, a rovescio rispetto a quelli di sant'Ignazio: non è il mio animo a compiere la mistica ginnastica; va invece in ferie, lasciandosi coinvolgere da quanto di divino lo circonda. Un po' la “pioggerella” che bagna l'orto di Santa Teresa D'Avila, un po' l'orientale ricerca del farsi tacere per sentirsi.
Crescendo, la musica ha avuto per me un ruolo simile: una catarsi involontaria, il gesto d'arte che eleva lo spirito. Per questo spesso da adolescente mi sono lasciato andare alle note, per questo ancora adesso che, forse, sono adulto mi piace lasciarmi andare alle cure della musica.
E', ripeto, un lasciarsi andare, un fiducioso sprofondare; non è meditazione, pensiero, riflessione, non parte da dentro: ma lì arriva.
Mi riesce bene camminando, passeggiando, fotografando; per questo il cane e la macchina fotografica sono i migliori compagni di viaggio in questo torrido agosto lacassese: sgombro la mente, calzo gli scarponi e scendo nel ‘basso', giù nel Ceronda che d'estate diventa una strada fiorita, palcoscenico ideale per avventure tra l'onirico, il trekking e il birdwatching.
Bastano pochi passi e i panorami abituali diventano palcoscenico che non tarda a mostrare le quinte; pochi sguardi sono sufficienti per vedere che le aride sassaiole e gli stagnanti rigagnoli sono in realtà sentieri tra le stelle, incendi di galassie,
fuochi d'artificio che esplodono leggeri e coloratissimi, limpidi specchi d'acqua che esaltano foglie vanitose, lustrano lisci, levigati e tondi sogni di fiume, spighe alte e orgogliose ondeggiano
su note di brezze fluviali ispirando qualche suono lontano, presente in qualche recesso della memoria, un refolo di quell'inconscio collettivo che tutti ci portiamo sottilmente negli angoli scuri e caldi dell'animo... e basta questo per mettermi in una condizione di pace, di ascolto quieto e stupito, così che nel volo delle garzette percepisco il soffio dell'aria su cui poggiano, la
logica dolce e matematica dei movimenti eleganti, sapienti, efficienti che al solo guardarli ci s'innalza e rinfranca...
Mi danza intorno “La musica sull'acqua” di Hendel, una sinfonia che si libra tra i sassi, le spighe, i fiori e leggera riempie gli spazi che i suoni della natura lasciano liberi; rigoli, fontanelle, quiete lame d'acqua si trasformano in vasche d'architettura rinascimentale contornate dalle libellule, dalle farfalle, dai pesciolini: vita intorno alla fluida bellezza.
Sì, già sto meglio. Sono più vicino al cuore del mondo, mi sono più vicino. I miei passi si sono fatti più lievi, più lenti, più gravi; i movimenti più radi, quasi a voler imitare quello che vedo, a scivolare anch'io nelle logiche di fiume, nell'odore d'acque; anche lo sguardo cambia; invece di cercare si lascia trovare; ed è proprio qui, in riva al ceronda, che una piccola viola del pensiero ed una spiraea japonica mi offrono le loro grazie; la prima in basso tra i sassi, la seconda in alto tra i cespugli.
La violetta è piccola, minuta; a guardarla bene è accecante nei suoi colori. Se ad un primo sguardo la si vuole guardare lo si può fare; ma se si indugia sullo sfondo di pietre celesti e arancioni da cui nasce, sullo stelo, sulle foglie, sulle sfumature, sui colori, sul vortice di definizioni cromatiche che portano al centro del fiore... allora...allora... ci vuole coraggio, ci vuole molto coraggio per affrontare il centro del fiore; ci vuole una mente limpida, sincera e alta, che oggi posso solo sperare di avere. Quel giallo accecante, quelle strie nere, quelle taglienti lame bianche come denti affilati, quell'abisso di luce che attira al centro del mondo, quel buco nero della volontà... devo lasciar perdere, è troppo forte, mi stordisce. Rimane nelle orecchie qualcosa di forte e amaro, tipo ‘A day in the life' dei Beatles, uno dei pezzi più strani che abbiano composto.
Stordito, abbasso quindi gli occhi, per rialzarli sulla leggiadra spiraea... che mi guarda dall'alto, o, meglio, si fa guardare. Ah, il fascino dell'oriente: guardate come porge le foglie, guardate come disperde la nebulosa di stelle da cui esplodono gli stami, guardate come nuota leggera nell'aria... e lì intorno volo anch'io in un viaggio interstellare tra mari rosa e abissi viola.... Sade, sicuramente; non il divino marchese, ma la cantante, per esempio ‘smooth operator' potrebbe sinuosamente adattarsi a questa sofisticata femmina di fiore.
Lì vicino tre semplici spighe mi attirano: si stagliano sui colori dell'acqua, delle pietre, dei campi: mi sembrano un bel simbolo di questi luoghi, faccio una foto con le tre “signorine” in primo piano ed il resto sfocato, ma non troppo, in modo che si percepiscano le forme ed i colori, in modo che sia chiaro chi sono, che fanno, dove dono, a chi appartengono e di chi sono signore. Dopo l'apparenza, cominciamo con la sostanza: il gioco comincia a farsi duro. Questa è coerenza, potenza, concretezza: ricorda il grano, il raccolto, settembre, la Vergine, il controllo, la sicurezza. Oso un ‘Atom earth mother' dei Pink Floyd: chi ha composto quella musica è un genio, o era fatto, o tutt'e due. Me lo lascio girare nelle orecchie, la sinfonia mi avviluppa tra il Ceronda e i pioppi, tra l'acqua e la pietra, tra la testa e lo stomaco rimbalzano le melodie e i bassi che mi imbrigliano tutto l'essere in una melassa goduriosa di sensazioni di cui non sono padrone, ma sicuramente protagonista.
A questo punto la mente comincia ad essere in uno stato di alterazione “confusa e felice” come nella canzone e ho bisogno di un attimo di pausa tra un quadro e l'altro; proprio come nei “quadri” di Mussorgsky, tra uno e l'altro c'è una “promenade” per consentire all'animo stupito di riposare in attesa del prossimo quadro. Mi tornano in mente le note del pianoforte nette, pulite, profonde e significanti (quelle prima della revisione sinfonica di Rimsky-Korsakov ) mi viene incontro l'immagine di Mussorgsky già vecchio e piegato dall'alcool
ma con ancora in testa la tensione romantica e l'ammirazione infinita per l'amico pittore Viktor Hartmann, morto troppo presto, autore di quadri così significanti da meritarne un ode che, veramente, “forse non morrà”...
Ancora con le note sul quadro ‘La grande porta di Kiev” lascio la riva: mi addentro nella boscaglia, passeggiando. Promenade, appunto.
Rocce, erba secca, cammino arido, qualche difficoltà a camminare. Via dalla mente Mussgorsky, faccio entrare ‘One for the Vine': Genesis anni '70, album Wind and Wuthering, Collins che imita Gabriel e diventa più gabrieliano di Gabriel, una delle melodie più grandi che porto nel bagaglio dei ricordi; la storia di uno schiavo che si libera, diventa grande, diventa conquistatore e legge negli occhi di un suo schiavo che si ribella... sé stesso.
E' quasi mezzogiorno: mi aspettavo un caldo soffocante in mezzo a rovi impercorribili. Invece l'aria è fresca, e tra i rovi si intravedono camminamenti che lasciano procedere abbastanza tranquillamente.
Poi s'intravede un cambiamento nel panorama; quasi improvvisamente, dopo una radura verde, si apre uno spettacolo di noccioli: tutti alti più o meno 4 o 5 metri che sostengono con i loro rami ad arco una volta verde sotto la quale non c'è erba, non c'è rovo, cespuglio o altro: solo foglie, un tappeto di foglie, un mosaico di foglie.
In alto i rami si intrecciano a coprire il cielo; mi ricordano le volte di un chiostro medioevale ed in mezzo una radura, una parte incassata, un mistero profondo... una pozza d'acqua, scura, nera come l'inchiostro... un posto magico, silenzioso, basta sprofondarci un po' con l'anima e si sentono gli echi tra i muri secolari. Melodie lente, profonde, insieme allo 'Squonk' dei Genesis (Un animale bruttissimo, quando catturato dai cacciatori piange così tanto da trasformarsi in una pozza di lacrime) mi arriva ondeggiando ‘la nascita di un lago' di Angelo Branduardi,
“dimmi cosa vuoi
che io ti possa regalare,
grande è il mio potere,
quello che vuoi io posso fare”
mi perdo nelle acque scure, nere, rischio di annullarmi nella liquida profondita quando... plop! Plop! L'acqua è piena di vita, è piena di rane! Saltano di qua e di là, l'aria è limpida, il posto delizioso, ci si può sedere a fianco dell'acqua, e guardare nei riflessi scuri e... perdersi.
Mike Oldfield, “Incantations”, seconda parte, ogni strumento che entra nella melodia è una nuova creatura che entra in scena.
Piano piano, in un riflesso più scuro e più luminoso insieme, quando al fondo dell'acqua vedo un colore più nero e più verde, più profondo e più arioso: è il riflesso di un'apertura nel bosco, un verde smeraldo lucente, una specie di luminosa apertura tra le fronde... ci devo andare.
Promenade.
Tra i rami si intravede qualcosa di... lucido, splendente e verde. La prima cosa che colpisce è la superficie liscia dell'acqua, piatta,
piana orizzontalità trafitta da verdi canne puntate verso l'alto. Solo dopo qualche attimo capisco che sono di fronte ad uno stagno: l'acqua è calmissima, ferma, ma limpida; un'acqua onesta. Qualche passo avanti, oltre i rami, e lo stagno si apre: ondeggiano gli steli delle canne come tante bacchette di direttori d'orchestra, mi abbagliano gli arancioni delle foglie cadute nell'acqua, il nero profondo degli abissi dello stagno, il verde carico delle piante sott'acqua, i riflessi cristallini di ogni increspatura.
Respiro lentamente, non vorrei essere di disturbo in questa quieta quiete; vedo il mondo com'era per milioni di anni, perfezioni d'un ambiente naturale... fatico a pensare di essere a quattro passi da casa.
Non può esserci nelle orecchie che la colonna sonora di ‘Koyaanisquaatsi' di Philip Glass. Uno dei film che narra le profezie e la visione del mondo degli indiani Hopi che avevano chiaro l'impazzimento verso cui il modo si sta dirigendo: e avendo chiaro il profilo dell'iceberg che aspetta il Titanic possono descrivere il miracolo del mondo che viviamo.
Mi spingo più avanti, il cielo si apre e riflette le nuvole nello stagno. Resto un po' ad assorbire questi attimi di luce poi... vedo un camminamento ed è...
Promenade.
Passo tra gli arbusti e più avanti vedo un secondo stagno: più piccolo, oblungo, meno evidente del precedente; anche qui l'acqua specchia il cielo ma in mezzo allo stagno ci sono... le ninfee!
Ero abituato a vederle in laghetti curati, preparati, laccati; vederle splendere in quest'ambiente selvatico mi lascia stupefatto, tanta semplice eleganza
nel cuore di un anfratto del Ceronda... ed è qui che mi lascio andare, in mezzo a qualche onirica melodia (Steve Hackett, “spectral mornings”) mi tornano in mente gli insegnament del ‘don Juan” di Carlos Castaneda, vorrei essere un corvo per vedere la scena dall'alto e....
...
...senza promenade, preciso, puntuale, si leva un airone a portare via i miei pensieri, a farmi capire che l'uomo ha un limite verso cui tende e davanti al quale lo struggimento lo annulla in una hybris che è compimento e annullamento della corsa insieme, la ricerca del senso è il senso.
Almeno in questa vita.
Giuseppe Verdi, Salva me, Messa da Requiem.
Perché l'uomo ha dei diritti su Dio.
aride sassaiole
sassi lucidati
incendi di galassie
la ginnastica delle garzette
spighe
la violetta tra le rocce
spiraea japonica
altri antri
le padrone del Ceronda
tra i rami, una luce...
lo stagno grande
lo stagno grande
ninfee
visioni nello stagno
lo stagno piccolo
guardami nel cuore
hopi
l'airone
il ritorno
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