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Anche oggi ho finito il giro, meno male, questa sera sono veramente stanco. Gli anni passano e le mie gambe a volte cedono, pedalare è sempre più fatica.
Tolgo il lucchetto e apro il portone di legno, il tanfo di aria umida mi circonda. Mattoni grezzi e terra battuta, pomposamente detto garage. Per il mio trabiccolo, come lo chiamano loro.
In fondo questi vicini sono brava gente, mi credono un po' strano e per questo girano alla larga. A volte li sento i bambini che ridono di me, ma francamente non mi importa.
Con quelle loro biciclette colorate sfrecciano nel cortile giocando ad evitare le buche, aggirare i mucchi di terra, testimoni negli anni di lavori mai finiti, come fossero ruscelli e colline.
La mia bici è un po' strana, lo so. Mi prendono in giro perché dicono che sono l'unico ad attaccarci la roulotte.
Si, mi piacerebbe renderla un po' più confortevole, a volte fantastico di avere un motore invece di pedalare, pedalare sempre. Poi d'inverno non sarebbe male essere al chiuso, al caldo. Tempo fa ci avevo fatto un pensierino, ero andato a vedere qualche vecchio camper che si poteva adattare. Ma poi tra una cosa e l'altra veniva fuori che il costo era proibitivo, almeno per le mie finanze. Almeno per ora.
Tanto in fondo mi va bene anche così. Fretta in fondo non ne ho. Mi copro bene.
Il mio giro ormai è quasi un'abitudine, i clienti grosso modo sempre gli stessi. Potrei allargare il giro ma in fondo quelli che ho mi bastano, non avrei altro tempo per soddisfarne di più.
Forse dovrei abbandonare quelli meno redditizi, o quelli saltuari, che arrivo e non sempre hanno bisogno. Ma è che io in fondo mi ci affeziono e mi sembrerebbe di far loro un torto saltandoli dal giro. Penso che magari mi aspettano e non vedendomi resterebbero delusi.
Ormai ho un percorso collaudato da anni. Diverso per ogni giorni della settimana. Preciso. Anche gli orari hanno la loro importanza.
Che quando arrivo non è che ci sia molto da dire. Giusto due parole di circostanza, non è per parlare che mi aspettano, anzi, proprio per non parlare hanno la frenesia di vedermi.
Ci si accorda giusto sul tempo, si paga prima, questa è la regola. C'è tanto di cartello. Non che io ci tenga particolarmente a regolarizzare prima la faccenda, è che negli anni ho capito che la maggior parte preferisce così, in modo da sentirsi libera di andare via alla fine senza necessità di parlarsi, di salutarsi. Lo so, sono cosciente che non è per scortesia.
E' che dopo ci si sente così bene che si vuole prolungare l'incanto. Lo capisco, io, che l'ho provato sulla mia pelle.
Prima di fare questo lavoro, forse il termine è eccessivo ma a me piace considerarlo così, non si può dire che io abbia avuto un'esistenza tranquilla. Sono stato piuttosto scapestrato, per dirla con qualche eufemismo, ma non recrimino niente, tutto quello che ho fatto, tutte le conseguenze, sono frutto di azioni e sbagli miei. Non ho mai cercato giustificazioni. Ho giocato con cose più grandi di me, ho rischiato, perso, ho pagato tutto fino all'ultimo centesimo.
Ho vissuto anni chiuso in una gabbia e lì davvero ho rischiato di dare di matto. Passare giorni e giorni in dieci metri quadri a condividere l'aria con altri disperati. E' dura, non hai modo di essere mai solo, la tua esistenza si fonde con tutto il resto, le vite, i muri, i respiri degli altri. O impari ad accettarlo, a conviverci, oppure giorno dopo giorno ti annienta.
Ho fatto fatica, ho passato momenti terribili ma, un po' alla volta, ho trovato un equilibrio mio, una forza dentro che mi ha mantenuto in piedi, nonostante tutto.
Quello che però davvero non sono riuscito mai a superare è la continua, costante, martellante presenza del rumore. Giorno e notte, notte e giorno. Voci, urla, lamenti, porte che sbattono, cancelli che scorrono. Risa, carrelli che passano, camminate da passo pesante, come pugni in testa, come tamburi nelle orecchie.
Mesi, anni, senza riuscire ad restare un attimo senza cogliere nell'aria un suono.
E' diventata un'ossessione. Forse alla fine la vera forza che mi ha permesso di resistere. L'idea che uscire da lì volesse dire riuscire finalmente a trovare il silenzio.
Non vedevo l'ora che arrivasse quel benedetto giorno, contavo le ore verso la fine, solo con questo insistente pensiero. Lo so, per tanti altri il desiderio di libertà significa altro. E' uscire, muoversi, camminare, vedere gente o restare soli, andare in giro senza confini. Per me era diverso.
Varcato quel cancello mi aspettavo di lasciare dietro ogni traccia di rumore. Mi aspettavo un mondo diverso. Una delusione.
Rumore, rumore, auto che passano, strombazzano, camion, autobus che accelerano, frenano, rumore dei cantieri, del traffico, del mercato, del cortile della scuola. Musica a tutto volume nei negozi, nelle auto, dalle finestre aperte sui balconi. E la gente, la gente, che continua a parlare. Parole, parole, la gente ti stordisce di parole, ti inonda di domande a cui non ti interessa rispondere.
Ho provato a scappare, fuggire dalla città, dai luoghi abitati, pensando che forse il mare, forse in alto tra le montagne sperdute potessi trovare la pace. Ma non c'è niente di più rumoroso del mare, che sia calmo o in tempesta le onde si possono adagiare dolcemente o sbattere sulla riva, il rumore è continuo, costante.
In montagna ho ascoltato il rumore del vento tra gli alberi, l'acqua scorrere in mille ruscelli, il canto di tutti gli uccelli, il verso di ogni animale. I suoni che si propagano per chilometri, il rombo del temporale che arriva improvviso, la pioggia violenta.
Sono tornato a quella che avevo eletto come mia casa, due stanze piuttosto malmesse tra cui mi aggiravo senza trovare pace.
Lì mi è venuto il pensiero, quest'idea di costruirlo io il silenzio. Mi sono messo a cercare come un pazzo il modo di costruire un muro impenetrabile ai suoni, giù, nel garage, ho comprato libri che mi spiegassero tutto sulla propagazione dei suoni, su come fermarli. Mi sono procurato i materiali più disparati e ho costruito questa specie di stanza, di gabbia dentro cui rinchiudermi quando proprio non ce la facevo più.
Ho capito che poteva funzionare, che il resto della giornata riuscivo a passarlo più tranquillo con l'idea che in qualunque momento potevo allontanare tutto e spegnere ogni suono.
La cosa delle ruote è nata dopo, quando ho cominciato a pensare che in questo modo non riuscivo ad allargare i miei confini, dovevo stare sempre nei dintorni di casa.
Così ho reso la mia stanza mobile, non è stato facile ma alla fine è diventa questa specie di roulotte che trascino con la mia bicicletta.
Non so come sia iniziata questa cosa di vendere il silenzio. Qualcuno capace di andare oltre il sospetto, un timido "mi faresti provare ?", qualche spalla da offrire per piangere a chi ne è uscito troppo provato.
I più aspettano con ansia il mio arrivo. Ne escono rigenerati. Incontro persone di tutti i tipi. C'è la parrucchiera che passa la giornate ad ascoltare le lamentele delle sue clienti e dare ragione a tutte, c'è il manovratore di gru che non fa altro che sollevare pezzi di case.
C'è l'avvocato sempre immerso nelle sue arringhe, il verduriere al mercato che è in piedi dalle cinque. Ho la maestra dell'asilo che adora i suoi bambini urlanti, ma dei momenti ha proprio bisogno di fare una pausa.
Ho il vigile che dirige il traffico, la commessa del supermercato, il ragazzo che lavora in tipografia.
L'altro giorno ho incontrato un bambino. Come spesso succedere era molto curioso di questa strana roulotte. Siamo rimasti a parlare a lungo, mi ha raccontato di quante volte nei suoi pochi anni di vita aveva sognato un posto così, i suoi genitori litigavano sempre e da quando era nato le loro urla facevano da sottofondo alla sua vita.
Lo vedevo così desideroso di provare e nel contempo con un velo di tristezza negli occhi.
Quando ho capito che il problema era che non aveva i soldi per pagarmi gli ho detto che non doveva preoccuparsi, che la prima volta era gratis, ma poteva stare non più di cinque minuti.
Il sorriso con cui l'ho visto uscire mi ha aperto il cuore.
Immagine: living, light mode - da flickr.