Leggeremangiare

diego finelli
Prendi un gruppo di persone, non tante ma neanche poche: diciamo quattordici adulti e altrettanti bambini e ragazzi. Ognuno di loro ha portato qualcosa da mangiare o  da bere. Ognuno di loro ha portato con sé un libro , o ha preparato un brano da leggere agli altri. Libri, dattiloscritti, fotocopie, per la prima volta c'è anche un ebook reader.

Prendi un gruppo di persone: alcune si conoscono molto bene, amici di lunga data. Altri si conoscono solo un po', alcuni si incontrano per la prima volta.
Sono lì, in biblioteca, grazie al passaparola, a un avviso on line, a una locandina distribuita in paese.
Sulla locandina c'era scritto “buffet letterario”, un nome che forse può sembrare altisonante, ma che invece richiama qualcosa di molto semplice: condividere, in semplicità, cibo e parole, mangiare e raccontare, mescere e leggere.
Possono farlo tutti e sanno farlo tutti.

C'è il più emozionato che riesce a superarsi, c'è quello che aveva preparato un brano serio ma alla fine ripiega su qualcosa che faccia ridere, c'è chi legge in tono monocorde un lungo brano e proprio il fatto che lo legga così, quasi senza intonazione, ti fa entrare quel brano di grande letteratura nel cuore,  più che se lo avesse recitato un attore famoso; c'è chi  non legge, ma racconta a braccio una breve storia , che poi è la storia raccontata dal testo di una celebre canzone; c'è chi riesce a far sorridere leggendo un pezzo di storia patria,  c'è chi commuove e si commuove leggendo un brano di poesia familiare; c'è chi è capace a leggere come se recitasse, c'è chi declama, c'è chi racconta cosa viene prima e dopo la pagina di romanzo che sta per leggere e introduce, commenta, chiosa; c'è chi legge il suo pezzo e basta.
Funziona.

Adesso sarebbe bello che chi ha partecipato aggiungesse nei commenti il brano che ha letto il 26 febbraio scorso nella veranda di via Fila

Laura LaLunga13 marzo 2011, 16:28
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Un ragazzo, Chris McCandless, che cerca la propria strada in un viaggio verso l'ignoto, lontano da tutti e da tutto, nelle terre estreme dell'Alaska e si ritrova bloccato in mezzo alle montagne innevate in un precario rifugio, i viveri sono finiti...
Il dottor Zivago come compagno di viaggio, con appuntate le sue osservazioni e i suoi pensieri.
Dal libro "Nelle terre estreme" di Jon Krakauer ho letto:

Aveva appena finito di leggere Il dottor Zivago, un libro che lo spinse a scarabocchiare eccitati commenti a margine e sottolineare svariati passaggi:

"(...) Oh come si desidera a volte poter scappare dall'insulsa monotonia dell'umana eloquenza, dalle frasi sublimi, per cercare rifugio nella natura, apparentemente così silenziosa, oppure nel mutismo di fatiche lunghe ed estenutanti, del sonno profondo, di musica vera o dell'umana comprensione zittita dall'emozione"

McCandless segnò il paragrafo con un asterisco, cerchiando "rifugio nella natura" in inchiostro nero.
Accanto a "
Si accorsero solo allora che solo la vita simile alla vita di chi ti circonda, la vita che si immerge nella vita senza lasciare egno, è vera vita, che la felicità isolata non è felicità [...] Era questo che amareggiava più di ogni altra cosa" scrisse:

FELICITA' E' VERA SOLTANTO SE CONDIVISA.

E' forte la tentazione di considerare quest'ultimo commento come una ulteriore prova del significativo cambiamento di McCandless dopo la lunga e solitaria parentesi. Ne potremmo dedurre che si sentisse ormai pronto a schiudere gradualmente la corazza intorno al cuore e che, una volta tornato alla civiltà, intendesse abbandonare la vita del vagabondo solitario, smetterla di fuggire l'intimità ed entrare nella comunità umana come suo componente.
Soltanto che non lo sapremo mai per certo perchè Il dottor Zivago fu l'ultimo libro che Chris McCandess lesse.
In data 30 luglio, due giorno dopo aver finito il libro, Chris scrisse sul diario parole allarmanti: "Estremamente debole. Colpa dei semi di pat. Problemi anche solo ad alzarmi. Sto morendo di fame. Grande pericolo". (...)


Il 19 agosto Crhis McCandless fu trovato morto.

Scusate, è una storia triste, ma contiene una grande verità..

Pace


Stefano13 marzo 2011, 19:56
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 Libro: SHANTARAM                                                            Autore: GREGORY DAVID ROBERTS "Prabaker e i suoi genitori si accucciarono sul terreno accanto alla mia branda, formando un anello protettivo per tenermi compagnia nella notte calda e profumata di cinnamomo. Pensavo fosse impossibile dormire in mezzo a un cerchio di spettatori, ma nel giro di pochi minuti cominciai ad assopirmi cullato dal mormorio delle loro voci, dolci onde ritmate nelle notte insondabile trapunta di stelle luminose e sussurranti. A un certo punto il padre di Prabaker si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla. Era un semplice gesto di gentilezza e conforto, ma mi colpì nel profondo. Un attimo prima stavo scivolando nel sonno, e all'improvviso ero sveglissimo.Fui travolto dai ricordi di mia figlia, dei miei genitori, di mio fratello; pensai ai crimini che avevo commesso, e agli amori che avevo tradito e perso per sempre. Sembrerà strano, se non impossibile da capire, ma fino a quel preciso istante non avevo mai avuto una chiara percezione del male che avevo fatto e della vita a cui avevo rinunciato. Nel periodo delle rapine a mano armata mi facevo di eroina. Una nebbia narcotica si era posata su tutto ciò che avevo pensato e fatto in quel periodo, e offuscava ogni ricordo. D'altra parte, al tempo del processo e dei tre anni di prigione mi ero disintossicato, e avrei dovuto rendermi conto del significato che potevano avere per me, per i miei genitori e per le mie vittime i crimini che avevo commesso e la punizione che mi era stata inflitta. Eppure era come se li avessi rimossi. Ero troppo impegnato a scontare la punizione e a sentirmi punito perché potessi preoccuparmi dei miei misfatti. Nemmeno dopo la fuga dalla prigione-durante la mia vita da fuggiasco con una taglia sulla testa-avevo una chiara consapevolezza delle cause e delle conseguenze che stavano determinando il nuovo e amato corso della mia vita. Invece la prima notte in quel villaggio in India - cullato dal mormorio delle voci, gli occhi pieni di stelle-quando il padre di un altro uomo mi posò una ruvida e callosa mano da contadino su una spalla, compresi ciò che avevo fatto e ciò che ero diventato, fui consapevole della pena e dello spreco, lo stupido, imperdonabile spreco della mia vita. Mi si spezzò il cuore per la vergogna e il dolore. Seppi quanta sofferenza era in me, e quanto poco amore. Alla fine seppi quanto ero solo. Ma non potevo reagire. La mia coltura mi aveva insegnato bene le cose sbagliate. Perciò rimasi immobile, senza la minima reazione. Ma l'anima non ha coltura. L'anima non ha nazione. L'anima non ha colore, accento, stile di vita. L'anima è per sempre. L'anima è una. E quando il cuore prova un momento di verità e di dolore, l'anima non sa restare immobile. Strinsi i denti sotto le stelle. Chiusi gli occhi. Mi abbandonai al sonno. Uno dei motivi per cui abbiamo un terribile bisogno d'amore, e lo cerchiamo disperatamente, e perché l'amore è l'unica cura per la solitudine, la vergogna e la sofferenza. Ma alcuni sentimenti si nascondono così profondamente nel cuore che solo la solitudine può aiutarti a ritrovarli. Alcune verità sono così dolorose che solo la vergogna può aiutarti a sopportarle. E alcune circostanze sono così tristi che solo la tua anima può riuscire a urlare di dolore."

Lo consiglio.
un saluto   
Vittoria Fauro13 marzo 2011, 22:31
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Ho letto le pagine con cui inizia  "La luna e i falò" di Cesare Pavese.
Troppo lungo riportare tutto il brano. E' il racconto del protagonista che torna al paese dove è cresciuto, non nato, perchè orfano:

dove son nato non lo so, non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire “Ecco cos'ero prima di nascere”. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi.
....
Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di piú che un comune giro di stagione.

ci sono i suoi ricordi dell'infanzia, le colline, la cascina dove abitava con le sue sorelle. Il suo ritorno dopo tanti anni passati in giro per il mondo. Lo stupore, o delusione, di trovare le cose cambiate.

Ma non mi ero aspettato di non trovare piú i noccioli. Voleva dire ch'era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull'aia. Capii lí per lí che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci in mezzo sepolto insieme al vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l'avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l'effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.

e più avanti:
Cosí questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l'uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C'è Nuto il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d'occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l'esperienza. Possibile che a quarant'anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos'è il mio paese?
Alberto Fauro14 marzo 2011, 17:39
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  Io ho letto un racconto breve di Luis Sepùlveda, che, chissà perchè, mi ha colpito.
Con il procedere della vita, quante "storie" non risolte ci siamo lasciati alle spalle? Legami, un tempo stretti, che si sono persi, travolti dal flusso dell'esistere, estinti senza una precisa ragione, dimenticati. Vecchi amici persi di vista, amori giovanili sbiaditi dal tempo, luoghi dove hai abitato, scuole dove hai vissuto, ideali ormai intiepiditi, nemmeno ripudiati ma solo diluiti fino alla completa soluzione... 

Quanti sogni, quante fantasticherie, quanti rimpianti ci accompagnano ancora?

Qualche volta l' inaspettato accade,  il passato si ripresenta per darci una nuova, insperata, possibilità, ma è solo un' illusione: siamo noi che ce ne siamo andati, siamo diversi, incapaci (o impauriti?) di riafferare l'attimo. 

Il protagonista del breve racconto s'illude per un breve momento che un pezzo della sua esistenza gli sia restituito dal destino, ma s'inganna crudelmente.

D'altro canto, chi di noi avrebbe, d'un tratto, abbandonato la sua vita  balzando sul predellino del treno in partenza, appena scorta Elena? Voi? Io? 


UN INCONTRO PUNTUALMENTE MANCATO

Ortega caricò la sveglia, sistemò il segnale d'allarme in modo che suonasse esattamente alle quattro e mezzo del mattino e, per maggiore sicurezza, telefonò a un amico chiedendogli di chiamarlo alla stessa ora. Mentre si scioglieva le stringhe delle scarpe decise che era stupido coricarsi, precipitare fra le bianche barriere di un'insonnia sicura. Così si allontanò dal letto, andò al lavabo e si rinfrescò la faccia con acqua fredda. Subito dopo si gettò la giacca sulle spalle, uscì per strada e si avviò verso la stazione centrale. Quando arrivò all'enorme edificio grigio, non volle entrare immediatamente. Odiava in particolar modo quell'atmosfera di noia creata dai passeggeri che aspettano un treno locale fra sigarette e sbadigli. Aveva tempo. Mancavano ancora più di quattro ore all'arrivo annunciato con un telegramma di inumana laconicità. Entrò in un piccolo caffè. «Arrivo treno cinque e un quarto. Stop. Aspettami. Stop. Elena. Stop.» Quando la ragazza gli mise davanti il bicchierino di cognac, si rese conto di essere tranquillo. S'accorse che l'inquietudine che lo tormentava da settimane era scomparsa e che, al suo posto, l'assurda certezza di essere ancora innamorato arrivava quasi a irritarlo. La telefonata di Elena l'aveva sorpreso nell'intimità del suo appartamento di uomo solo, mentre si dedicava a sviscerare i ricordi che trasudavano dalle pagine di un romanzo di Semprùn. L'inconfondibile voce di Elena l'aveva scosso a tal punto che era ammutolito, tenendo la cornetta in mano quasi si trattasse di un rettile, e lei aveva domandato più volte se gli aveva fatto venire un infarto. Con una laconicità simile a quella del telegramma gli aveva detto che si trovava di nuovo a Parigi, che arrivava da Madrid dove aveva ancora alcuni amici, e che era più vecchia, parecchio più vecchia, aveva sottolineato. Quindici anni lasciano le loro tracce perverse nei capelli bianchi e nelle rughe che pian piano ci trasformano l'anima in una cartina di posti e di emozioni morte. «Frasi da tango», aveva replicato Elena. «Nient'altro.» Ortega assaporò il primo sorso di cognac e si disse che era assurdo invecchiare. Si ripeté che era morboso guardarsi ogni mattina allo specchio e vedere che un pezzo di vita, imprescindibile, e di noi stessi, è rimasto in qualche posto della stanza dove abbiamo dormito, perduto per sempre. Maledicendo ancora una volta lo scrittore imboscato sotto la sua pelle, Ortega non poté evitare di sorridere pensando alla sua stanza verso le nove del mattino, quando la donna delle pulizie vuotava i portaceneri, apriva le finestre e scuoteva le lenzuola. Quanti capelli, ricordi, frammenti di pelle, sogni, forfora e minuscoli brandelli di una persona cadono e servono da concime ai rosai del cortile. Gli tornò in mente un viaggio con Elena, uno dei tanti viaggi in treno da Madrid a Barcellona, da Barcellona a Valenza. Viandante, non c'è sentiero... Durante quel viaggio, ora impossibile da localizzare esattamente nei labirinti della memoria, Ortega le aveva spiegato nei dettagli la trama di un racconto che un giorno o l'altro avrebbe scritto. Era molto semplice. Un uomo nasce su un treno, in un vagone di seconda classe. È nutrito con il latte che proviene dalle varie stazioni in cui si ferma il convoglio. L'uomo cresce, impara le cose banali ma necessarie che lo legano alla realtà concreta, ma non lascia mai il treno. Conduce un'esistenza tranquilla, limitandosi a guardare fuori dal finestrino, finché la bestiolina dell'amore non inizia a scavarsi una tana fra la sua pelle e la sua camicia. L'uomo si accorge allora di possedere un dono sconosciuto. Può evitare qualsiasi tipo di complicazione esistenziale semplicemente scendendo alla prima stazione e prendendo il treno in senso inverso. Può ripetere quello stratagemma riparatore quando vuole, non appena la minima difficoltà minaccia di sconvolgere la sua tranquilla vita di passeggero. «Questa si chiama la filosofia di togliere il culo da sotto alla siringa», aveva replicato Elena. Quando ritrovò la parola, la voce di Elena stava formulando alcune domande dalla cornetta. «E tu? A quanto pare sei rimasto ad Amburgo per sempre. Suppongo che ti troverò trasformato in un perfetto signore tedesco. Usi anche uno di quei berretti blu da marinaio? Hai con te una dolce tedeschina a cui insegni ordinatamente a odiare l'ordine? Ti sono arrivate le mie lettere? Hai mai risposto?» Quindici anni. Parigi. Quella città idiota. Si erano separati quando l'ultima sigaretta era stata spazzata via da svogliati operai municipali, e l'ultimo grido di ribellione urlava il suo pentimento nello studio di un agiato padre di famiglia. Dei vecchi compagni della C.N.T. non restava che un vecchio taccuino con degli indirizzi, per lo più cancellati. Elena. Quando il sacro ordine aveva invaso vittorioso le strade parigine e i francesi avevano preso a ostentare con più fervore che mai la stupidità della propria arroganza, loro avevano iniziato una disordinata serie di itinerari forzati, che avevano condotto Elena in un caldo paese centroamericano e lui nella verde città di Amburgo, dove ora l'aspettava bevendo il suo terzo bicchierino di cognac. Ogni tanto aveva casualmente incontrato vecchi conoscenti, uomini che quando ricordavano quei tempi abbozzavano una smorfia gentile, guardavano l'orologio e si scusavano di dover partecipare a riunioni improrogabili. Da alcuni di loro aveva saputo che Elena viaggiava per paesi dai nomi che sanno di frutta, di avventure di pirati, di ore silenziose davanti a mari trasparenti, di pelli dall'amabile sfumatura ambrata. Pagò la consumazione e s'avviò. Quando entrò nella stazione si fermò davanti al tabellone degli arrivi e guardò su quale binario sarebbe giunto l'espresso Parigi-Varsavia. Scese le scale e aspettò. Mancavano ancora cinque minuti. Ortega si sedette su uno scalino e decise di prepararsi le parole necessarie. Parole che sarebbero servite da ponte per superare un abisso di quindici anni. Anche se tenta di evitarlo, parleranno necessariamente di quei giorni, dei sogni, del vogliamo l'impossibile, del domani è il primo giorno del resto della tua, eccetera. Degli slogan che a volte, quando incontrava Dani «il rosso» trasformato in un impeccabile editore di giornali e riviste illegali, gli salivano in gola come una fastidiosa secrezione, segno del desiderio di rigettare il boccone amaro di quella storia. Una voce anonima che annunciava l'arrivo dell'espresso lo distolse dalle sue elucubrazioni prima che avesse trovato le parole. Il treno si fermò e Ortega si alzò in piedi, raddrizzò la testa quanto glielo permettevano i muscoli del collo e cominciò a esaminare le facce assonnate dei viaggiatori che scendevano e i volti nervosi di quelli intenti a salire con il biglietto in mano. In mezzo agli spintoni si sentì prendere da un nervosismo crescente. Non gli erano mai piaciuti né gli incontri né i saluti. Per loro, la Comune era stata proprio quello, la possibilità d'una vita continuata, senza limiti. Affrettò il passo sul marciapiede, scrutando l'interno fiocamente illuminato del treno. Correva quando arrivò agli ultimi vagoni e il fischio che ordinava la partenza lo colse in mezzo a una volata folle, mentre schivava come un giocatore di rugby i passeggeri in ritardo ed evitava di sbattere contro i carrelli della posta. I tre minuti di sosta erano svaniti troppo in fretta per uno che ha aspettato quindici anni. Pensò a un errore di itinerario, a uno sbaglio del telegrafista, ma quando il treno si stava già muovendo scorse il volto di Elena delineato dietro i vetri. Elena!, gridò. Elena! La donna si limitò a rispondergli con un sorriso. Gli mandò un lieve bacio chiuso tra le dita, e gli indicò la parola Varsavia sul lato della carrozza. Ortega rimase immobile, vedendo scomparire il treno in uno squarcio di luce mattutina che già s'insinuava nel cielo, e pensando all'alba si illuse di averla capita. Elena. Varsavia. Lottare contro il potere. Cazzo! La stessa storia.  

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