Dei bordi dell'anime

italo losero

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Il fatto è che tutto funziona, ma bisogna farci attenzione, delicatamente, come con  i bambini; altrementi uno non se ne accorge neanche, passano le feste che neanche l'ha visto, il miracolo.

Cerco di dirlo: provate a sentirvi il respiro, piano.
Si inspira e si espira.
Poi... proprio lì, proprio a metà, c'è una piccola morte: un valico, una breccia nel tempo, un momento in cui non state nè espirando nè inspirando.
Come quando camminando in montagna arrivate su un colle e non sapete bene se siete al di quà o al di là della valle.
E' solo un piccolo attimo, un sospeso istante, ma ha il colore dell'oriente al tramonto: sa di lontani sensi, di odori di quand'eri bambino, del sapore che resta in bocca di gusti catturati e già svaniti, di quel sentimento antico che fa a meno del tempo.

Sono sempre stato un adoratore dei bordi, i bordi delle strade, delle cose, dei sentimenti e delle azioni, cioè dove finisce una cosa e dove inizia l'altra. Indimenticabile Baricco: il personaggio che vuole misurare dove finisce il mare ed ogni giorno va a spiaggia per misurarlo nonostante il movimento delle onde, il chiodo che sostiene il quadro e, un giorno, improvvisamente, cede: l'esistenza divisa tra prima del cedimento e dopo; il bordo, netto, il momento in cui ha deciso adesso non reggo più, ma non ha ancora ceduto. Assenza di tempo, odore di mirto e incenso.
Musica di Wagner, perchè no. No, meglio Verdi, l'ouverture di La forza del destino.

Il bordo del sonno è quello che più mi piace. A volte lo aspetto, lo cerco, lo annuso: quell'attimo in cui le membra sono già andate e la mente ha ancora un barlume di veglia; da bambino diventavo matto, la notte della vigilia di Natale, sapendo che al mattino ci sarebbero stati i doni e solo quel bordo mi separava da loro; tutto il resto, il sonno, la notte, non contava; l'importante era arrivare al bordo e gettare il cuore di là.

E il bordo del giorno dov'è? Non è certo la mezzanotte, che è un'invenzione; forse il bordo vero del giorno è, per ognuno di noi, il bordo del sonno; di nuovo una piccola morte che ci accompagna; per dirla con il Francesco santo, la nostra corporal sorella morte che ci fa l'occhiolino. Che ci dice 'facciamo amicizia', tanto, prima o poi ci conosceremo meglio...

Così i mesi; anche qui un bordo finto, quello del 30, 31 o 28, e un bordo vero, quello delle lune. Avrebbe molto più senso un mondo femminile guidato dalle lune che questo maschile guidato dal calendario; ma tant'è, ce lo teniamo, anche se le persone sensibili sanno annusare i bordi della luna, quella luna nuova che tanto vuol dire a chi vive di natura e così poco dice al mondo delle 'persone serie'.

Il respiro, i giorni, i mesi e gli anni, i loro bordi; allargando i tempi si arriva a  questa cosa dell'anno, e del solstizio: è magica. Ditelo sottovoce ai bambini: è magica, e sperate di avere la mente aperta e grande come la loro per accogliere una così grande meraviglia.
Domani, 21 dicembre, il sole è nell'ultimo giorno di agonia; dal 21 giugno scorso la luce del giorno è diminuita sempre di più finchè domani a La Cassa il sole sorgerà tardi, alle 8.04, e tramonterà presto, alle 16.49; solo 8 ore e 45 di luce.
E inoltre proprio in questa data, domani per me che scrivo, presagio indecifrabile, questa notte avremo un'eclissi di luna; la parte femminile si nasconde nell'ora dell'abisso.
E' la luna rossa, che tante pagine ha fatto scrivere.
Sa di fine del mondo.
Avverrà tra le 6.30 e le 7.30; per chi si ostina a leggere i salmi, è l'ora in cui la sentinella che ha vegliato alza gli occhi  al Signore e prega di vedere la stella del mattino, segno del giorno; che poi è il pianeta Venere, segno di femminilità e bellezza, chiamata anche Lucifero, maschio nome di diavolo che significa 'portatore di luce'; ce n'è da misticheggiare per la notte intera.

Dopo il solstizio sappiamo che il sole riprenderà il suo cammino, e che questa è la notizia, questa è la festa, questa la più grande gioia dell'anno: il sole che è la fonte stessa della nostra vita continua a scaldarci con il suo calore. E' festa grande perchè la vita rinasce ed è veramente motivo di gioia.
Nel marasma di problemi in cui ci dibattiamo, tra politica, amministrazioni, cronache e lavoro, poche sono le certezza incrollabili; tra queste il fatto che domani sarà un'altro giorno, ed il fatto che il sole riprenderà la sua corsa fino al solstizio d'estate.
Ce n'è da affratellare gli animi di tutti gli uomini vissuti sulla terra; è qualcosa di più profondo ancora dell'inconscio collettivo, è la base dell'essere uomini.
Da sempre il risorgere del sole, l'allungarsi delle giornate, è stato l'evento mistico, magico, divino, il rapporto verso una realtà più grande di quella confinata dalle nostre menti.

E' più che logico che i primi vescovi abbiamo voluto porre la nascita del Cristo il 25 dicembre, sostituendo il Natale ai culti precedenti (in particolare quello del sole invitto); dopo qualche giorno è lampante, il sole è risorto, la vita riparte, qual è il segno più chiaro che risorgere si può?
Così come il cristianesimo, tutte le religioni  hanno qualche culto che corrisponde nel tempo col solstizio d'inverno, tanto che possiamo leggere questo segno (sono eretico se lo chiamo sacramento?) come il vero legame tra tutte le religioni, tra tutti i re-ligio, lego di nuovo l'Uomo alla sua radice.

Ce n'è da essere felici; c'è da chiedersi se questa orgiastica simbologia consumistica delle feste natalizie non abbia qualcosa di buono rifulgendo di una origine sana, nobile.
Ce n'è da essere felici, perchè ci ricongiunge con i nostri passati e ci dà una mano per affrontare il futuro.
Ce n'è da essere felici, perchè ci rende simili, ci fa capire che siamo sulla stessa  barca dove viviamo, e remiamo, insieme; aspettando nella notte la stella del mattino.

Auguri.

La Cassa, la vigilia del solstizio d'inverno, 20 dicembre 2010

italo24 dicembre 2010, 09:27
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Qualcuno sa scattare delle fotografie bellissime...

spero che guardare insieme questa serie di immagini scattate nel sostizio d'inverno possa essere un augurio per tutta la nostra comunità.
fabri16 gennaio 2011, 15:46
È da quando è stata inaugurata questa sezione che mi riprometto di scrivere qualcosa a proposito dell'emozione che evoca in me questa parola. poi, il tempo che manca, la tema di esser spocchioso, i rumori molesti della vita, mi hanno fatto passar oltre. Oggi, con un po' di febbre addosso (pazienza se ne vien meno lucidità...), la nebbia che, fuori, si è appena levata, quella che, dentro di me, continua a pormi silenziose domande, e la quiesce dovuta all'orario e al giorno festivo, trovo le energie per scrivere qualcosa.
Liturgia, da ateo, meglio, da religioso in forma caustica - si, proprio come la soda che quando la tocchi ti bruci - cosa significa? Lontani ricordi di letture teologiche per i quali sono grato ad un erudito che, morendo, mi ha lasciato l'intera sua biblioteca, mi riportano al vecchio e al nuovo testamento. Il culto di Jahvé nel VT, il servizio religioso reso dai sacerdoti levitici (quelli dell'arca dell'alleanza, quelli deputati alla musica) che hanno garantito, grazie alla liturgia, la distinzione del culto di Jahvé dai culti pagani; nel NT l'abbandono della forma cultuale ovvero la celebrazione eucaristica in cui Cristo stesso è il liturgo, l'assunzione, nel NT, di un'importanza maggiore che nel VT in quanto fondamento di una nuova alleanza: quella spirituale. La liturgia nel NT si allontana dal culto estetico/cerimoniale/decorativo con alcuni no (alla materializzazione del culto, al culto delle vittime [cioè ai sacrifici], all'osservanza esteriore della legge, a tutti quelli che si radunano nel tempio per queste, anzi, solo per queste pratiche cultuali [ecco perché Cristo annuncia la distruzione del tempio]), ed alcuni si (alla misericordia, ad amare il prossimo e Dio, a riconoscere come necessaria la distruzione del tempio, alle cose che sono persino più importanti del tempio stesso). Insomma la differenza, trasposto nell'oggi e con una formula spicciola, tra il solo predicar bene e poi magari razzolar male, e il predicar bene in sé, perché c'è credo e sacrificio e persino consunzione nelle pratiche religiose, o anche solo nella loro disperante ricerca. Da quei no e da quei si il cristianesimo – ed è una delle unicità della sua filosofia – esce dagli schemi di qualsiasi altra forma religiosa in quanto ammette forme esteriori di culto, non le ammette come valide in se stesse, e ammette il culto attraverso segni di una realtà solo se collegati ad una presenza. Questa è la visione che della liturgia, in particolare, dà il Concilio Vaticano II: trasformarla, anzi, elevarla da disciplina ausiliare a disciplina primaria, agganciandone l'insegnamento ai più importanti valori teologici, allo studio sul mistero di cristo e alla storia stessa della salvezza. Venendo alla musica – non quella dei levitici, ma quella di Beethoven – quel linguaggio che dice tutto senza la schiavitù delle parole, accompagnerei il percorso storico e di creazione della liturgia così come oggi la conosciamo con il 2° movimento del concerto per pianoforte e orchestra op. 73 definito da Beethoven stesso adagio un poco mosso. Ecco che quella della parola che prima chiamavo schiavitù, prende forma diversa, evocativa, trascende, e il termine liturgia, nella voce del pianoforte che sembra pronunciarlo, emerge dal suo passato lontano di confusa ritualità e si avvicina a noi come un suono dolce al quale, non sappiamo neppure perché, siamo già affezionati. È un tono fatto di intrinsichezza, di eloquenza, di solennità ed intimità di accenti allo stesso tempo, di energia che travolge con delicatezza, di…mete finali raggiunte. Proviamo ad allontanarci dalle nostre liturgie e non sentiremo più musica. Proviamo ad abbandonare l'ascolto della musica e le nostre ritualità, le nostre ricerche del mistero prenderanno itinerari diversi. Non so quanto forte possa essere la ricerca della presenza: non lo so in me, non ho l'ardire di indagarlo in altri (come fanno molti…nel tempio), ma so che la mia liturgia semplice, fatta di emozione - come dicevo all'inizio - di stagioni che si assommano, di musica che tace non invano, di qualche affannoso “perché” e di consentire alle mie papille gustative di assaporsi il tempo che mi è concesso quaggiù, è quanto di più intimo io possa sentire. Sicuramente questo mio intervento, come dicevo in apertura, è straordinariamente fuori luogo e fuori tema, ma l'autenticità di questo luogo virtuale, di questo sito in cui il confronto è alla base di contributi sovente interessanti, mi convince – chissà, a torto – di essere autorizzato ad inserire questo tipo di riflessioni. Mandatemi pure al diavolo, quindi, ma…liturgicamente!       
biagio16 gennaio 2011, 22:12
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Caro Fabrizio.
Le tue riflessioni non sono nè fuori tempo, nè fuori luogo.
Sono le domande che Tutti si pongono, anche se qualcuno fà finta di non sentirle...dalla sua Anima.
Oggi, alla messa delle 11, don Serra ha fatto delle riflessioni "profonde" che valgono una Lezione Universitaria...anche se dal pulpito...poi, non si può instaurare un dialogo...
Unendo il brano del Vangelo che narra il Battesimo di Cristo sul Giordano ....ecco l'agnello di Dio..
alla festa di sant'Antonio  e la "benedizione" degli animali, ha lucidamente spiegato il perchè del sacrificio dell'agnello, animale mite per antonomasia.
Cristo, mite agnello che ha accettato tutto, dimostrando con il suo comportamento, cos'è la Mitezza, che cosa vuol dire Pace, cosa significa "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori ".
Mi ricorda quel bellissimo articolo, a mò di dialogo,su Repubblica, tra il Card. Carlo Maria Martini ed  Eugenio Scalfari...che dice di riconoscere il vero peccato nel Golgota, la soppraffazione dell'uomo sull'uomo.
Purtroppo nella nostra società italiana, per il consolidamento stereotipato di posizioni ideologiche, siamo ancora al non dialogo, alla non ricerca, al poco ecumenismo, per arrivare alla Verità.
Brutti comportamenti derivanti dal potere, potere...
Ci sono bei tentativi come il Monastero di Bose...poi...ci sono approfondite ricerche dei gnostici...ma qui è davvero meglio fermarci, per il momento...

Pace
italo16 gennaio 2011, 22:35
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Stupefatto.
Non ho altri termini per definire questi alti commenti di Fabrizio e Biagio intorno all'Uomo, perchè parlare di quello che siamo è essere comunità, mettere in comune le nostre domande fondamentali è essere insieme; ognuno con le proprie capacità, ognuno con i propri bisogni.

Se tutto il lavoro fatto per mettere in piedi questo sito fosse servito anche solo per questa pagina, dico: ne valeva la pena.
fabri17 gennaio 2011, 18:08
già, caro biagio, la comunità di bose. si, condivido che si tratti di un'esperienza affascinante anche se, riportando alle esperienze degli anacoreti, dei padri del deserto, quella si decisamente fuori tempo. ma in fondo cos'è il tempo se non una energia transitoria che muove alcuni nostri neuroni e determinando i nostri movimenti - o tentativi di movimento - nello spazio? ecco allora che le esperienze di 1000 anni or sono, muovendo gli stessi neuroni nella nostra specie, sono ancora oggi degne della nostra fascinazione. si vedono molte cose nel silenzio e nella solitudine, lo diceva leonardo da vonci, lo diceva leopardi, lo dice, oggi, enzo bianchi. come non essere d'accordo? ma la domanda è, proprio con enzo bianchi: è sufficiente stringere tra le mani una bibbia, il vangelo, per astrarsi dal nostro tempo? è sufficiente, come dice lui nel suo incantevole ultimo libro ogni cosa alla sua stagione, parlare con un campagnino per capire che, in fondo, capire non è poi così difficile?
la mia timida risposta è, pessimisticamente: no!
no perchè il rumore del nostro tempo fa del tempo un concetto molto più concreto di quello di cui parlavo prima, no perchè oggi c'è la convinzione di dover passare il tempo mentre invece è vero che siamo noi a passare, non il tempo che resta ineffabilmente immobile e ride pure quando ci vede passare.
quindi: solo chi crede e chi segue "liturgicamente" la nostra come altre chiese ha il privilegio di ... non temere?
e su una cosa, infine, sono d'accordo con te, biagio, nel ringraziarti per le tue parole: si, è meglio finire qui!

con amicizia,
fabri  
Laura LaLunga17 gennaio 2011, 22:06
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 Mi piacerebbe contribuire con parole egualmente dotte e altisonanti al dialogo fra le Nobili Anime di questo sito. Ma sono una donna e, in quanto tale, viscerale, impulsiva e passionale. Mi sento più a mio agio con percezioni intense, forti e pervasive, con significati  terreni, umidi, freschi e che lascino traccia visibile in me.

Alcune volte, durante la lettura di questi interventi, mi par esser di fronte ad una cultura Alta, ad un'agape di Saggi che, riunitisi fraternamente nel silenzio monastico di questo Sito, si dilettano a discernere sulla umana materia che, talvolta, tanto umana non è.

Ma i molti richiami alla nostra "orgiastica simbologia consumistica", al "rumore del nostro tempo" in un'accezione terminologica decisamente negativa instillano in me l'idea che qualcosa ci stia sfuggendo.

Mi chiedo se senza il rumore del nostro vivere quotidiano sapremmo mai trovare il Silenzio. 

Riusciremmo a trovare sollievo nel silenzio della Comunità di Bose se non vivessimo così profondamente nella caoticità del nostro tempo? Quanto è connaturato in noi il rumore di sottofondo della nostra vita,  sarebbe un sollievo vivere senza? 
Ma potrei estendere la questione ben oltre: ci accorgeremmo della bellezza di un tramonto se avessimo solo quello da vedere, ogni giorno per tutti i giorni della nostra vita?

E quindi forse il mondo consumistico e rumoroso in cui viviamo non è quell'inferno che pensiamo ma è il solo tempo e luogo in cui possiamo vivere per poter godere appieno di tutte le emozioni di cui disponiamo. Anche del silenzio dopo un lungo e persistente brusio.



Mati18 gennaio 2011, 09:14
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Non sarà invece che il silenzio ci fa paura?   I Padri del deserto, in particolare Isacco di Ninive, utilizzavano la parola hesychia per esprimere lo stato interiore di quiete, silenzio, tranquillità.  Non si tratta tanto del silenzio del mondo, ma del silenzio che troviamo solo nel nostro profondo, così difficile da raggiungere. Gli asceti di ogni tempo e di ogni religione lo perseguono, con fatica, da sempre. Cercare, però, è già un cammino. Lasciare talvolta che la nostra mente vaghi nel nostro mondo interiore ci rende forse anche più capaci percepire ed apprezzare il silenzio esteriore.   La calma, la pace del cuore, come la chiamava Frére Roger di Taizè, non è un bisogno di tutti? Ognuno ha i suoi percorsi.   I monaci insegnano che la vigilanza sul nostro stato interiore porta ad una visone della vita tesa all'essenziale. Noi non siamo monaci, ciononostante mi pare che una sana tensione a prenderci cura del nostro giardino interiore ci aiuterebbe a meglio accudire quello in cui fisicamente ci muoviamo.
fabri18 gennaio 2011, 18:08
Nel corso di alcuni viaggi in estremo oriente sono venuto in contatto con realtà assai bizzarre dalle quali ho imparato (rispettosamente senza mai praticare) che la condizione più immediata per accostarci al sacro è quella di guardare dentro noi stessi. Sembra banale, scontato e anche un po' “animista” forse, tuttavia le esperienze dirette che ne ho avute mi hanno lasciato, credetemi, incantato. Non è il caso che annoi questo sito con fatti occorsimi che hanno avuto dell'incredibile, in bilico tra la suggestione in cui si è rifugiata la mia parte “illuminista” e il divino col quale, del tutto involontariamente, mi sono trovato a dover fare i conti.

Riporto questo mio personale vissuto perché sia gli occasionali maestri che in esso mi hanno guidato, sia il mio stesso naturale atteggiamento – con tutto il ritardo che un lento occidentale accumula in certi approcci – hanno generato spontaneamente situazioni contestuali di silenzio. La condizione per cui accadano alcune cose o per cui si odano certe voci è che ci sia silenzio.

Un silenzio vivo, non moderno, non beckettiano che voleva, in un teatro buio, una sola voce d'attore che tace, un silenzio che si meraviglia, capace di stupirsi, un silenzio, insomma, che non faccia “paura”: credo che Mati abbia ragione quando ne fa notare i potenziali lati terrifici.

Insomma, di fronte al sacro, che sia una pietra, un albero o noi stessi, bisogna acquisire la capacità di restare in silenzio. Favete linguis (trattenete la lingua), era la formula latina in occasione dei sacrifici (sacer ficare – rendere sacro). Così è anche in un altro ambito al quale a me piace sempre ricorrere per giocare un po', quello cioè della musica. Da dove nasce la musica, il linguaggio universale che sale e scende gli spazi dell'animo e raggiunge tutti senza bisogno di traduzioni? Dal silenzio! Provate ad ascoltare l'inizio del poema sinfonico Così parlò Zarathustra di Richard Strass: inizia in modo celeberrimo, e significativo per questa nostra discussione, con una tonalità che Strass stesso definì vuoto. Il vuoto in musica è sinonimo di silenzio, di pausa, proprio quelle pause che, inframmezzate al discorso musicale, creano aspettativa, emozione. Inizia, dicevo con un vuoto che assomiglia ad un brusio, la natura primigenia che prende coscienza di sé, appunto, nel silenzio. Poi la musica, lenta e con un disegno preciso, sale, il tramonto si fa alba, arriva l'uomo, l'oltreuomo di Nietzsche, inizia ad avanzare verso il mondo che lo ascolta e riesce, adesso, ad udirne nettamente il dire, che diventa impetuoso, quasi arrogante, fino a che la creazione non ha termine, e allora vediamo l'uomo allontanarsi e lo “sentiamo” spegnersi in quel suo momento primo su un'ultima, bassa nota d'organo.

Anche nella vita, se vogliamo davvero trasmettere qualcosa di alto e di altro da noi, che però provenga dalle nostre commozioni più profonde e dal nostro più inconsapevole rispetto verso il sacro, abbiamo bisogno di silenzio (non di vuoto, per carità: quello abbonda!). Ciò che vorrei dire, in particolare a Laura (oltre al mio schietto apprezzamento per come scrive), è che non condivido il suo esempio al quale rispettosamente ribatto con: non abbiamo bisogno di guerra per sapere che la pace è bella. Abbiamo, della guerra, una specie di conoscenza subliminale, coltivata nelle letture, ahimé germogliante ancora oggi in esperienze nemmeno troppo lontane. No, non credo che sia una semplice “reazione” quella della ricerca del silenzio, piuttosto una innata esigenza dell'uomo ad allontanarsi dalle fonti del suo contrario. Da dove nasce, infatti, il rumore se non dalla necessità di abbattere la comunicazione rendendola mera trasmissione di informazioni? Il rumore dell'oggi è la voce tracotante financo delle guerre, dell'egoismo di chi, nella semplificazione, vede possibile ogni cosa, riesce persino a giustificare il proprio passaggio nel tempo senza domande, senza che questi, di conseguenza si accorga di tale passaggio.

“Sento” nel rumore dell'oggi il berciare fastidioso degli sprechi che diventano un modello, della follia del “…ma tanto sono tutti uguali!” brodo di coltura del disgusto politico che affligge l'Italia, del mutismo imbarazzante che cala come una scure su numerosi rapporti di coppia, infine, un inaridirsi in generale delle relazioni umane.

Ma, va detto, io sono un pessimista senza sbocchi…silenzioso, tuttavia.  

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